Ah, il tempo… Se è vero che è la cura di tutti i mali, è altrettanto vero che può rodere ogni cosa e spedire nel dimenticatoio quelle belle. Come si può altrimenti spiegare l’indifferenza e l’ignoranza che circondano la Edgar Broughton Band, validissima compagine dell’underground britannico a cavallo tra fine anni Sessanta e i primi Settanta? I fratelli Edgar e Steve Broughton, rispettivamente chitarra/voce e batteria, e il bassista Arthur Grant, di Warwick, sono una delle realtà più sottovalutate di tutto il rock. E pensare che all’inizio i numeri sono dalla loro parte: messi sotto contratto dalla Harvest, il loro produttore è Peter Jenner, già con i Pink Floyd, suonano in popolosissimi festival musicali (certo, non da headliner, ma comunque a Hyde Park e Glastonbury, tra i tanti, ci sono anche loro) e nel 1970 raggiungono un sorprendente e insperato 18esimo posto nelle charts inglesi con il secondo album “Sing Brother Sing”. Lo status attuale di band di culto sarebbe anche tutto sommato comprensibile se si ascoltano i primi due lavori: quest’ultimo e l’incendiario esordio “Wasa Wasa” del ’69 sono opere notevolissime e di indubbia originalità, tuttavia non di facilissimo ascolto, con quell’acidissima e inquietante miscela di hard blues, psichedelia e art-rock, e dunque di fruizione abbastanza elitaria. Ciò che invece si fa fatica a spiegare è come mai il loro omonimo terzo album del 1971 non sia diventato un best seller, dato il suo enorme potenziale. Forse non giova l’angosciante artwork, che ritrae un uomo nudo appeso a testa in giù tra pezzi di carne, fatto per cui il disco è conosciuto come “the meat album”, ma non sarebbe né il primo né l’ultimo disco famoso corredato da una sconcertante copertina. Probabilmente anche il loro dichiarato schieramento politico, anarchico-sinistroide senza alcun compromesso, sortisce nei loro confronti una sorta di ostracismo da parte dei media, ma, se si pensa a quanti musicisti famosi di successo hanno preso posizioni scomode nei confronti dell’establishment, ciò non può avere determinato del tutto il loro status di “band minore”. Chissà, dunque… Ma veniamo al sodo.
Se gli ideali politici e sociali restano intatti, è al contrario indubbia la svolta stilistica. Accantonato lo sperimentalismo schizofrenico che li ha precedentemente caratterizzati, i tre optano per soluzioni di più ampio respiro e maggiormente orecchiabili, richiamano in squadra un altro chitarrista, Vic Unitt dei Pretty Things, già con loro per qualche tempo agli esordi, e realizzano questo terzo album omonimo con l’aiuto di nientemeno che David Bedford negli arrangiamenti. Prevalgono soluzioni maggiormente melodiche e un più frequente gusto pop: è chiaro come il gruppo, magari non senza pressioni da parte dell’etichetta, abbia prestato un orecchio attento a ciò che campeggia nelle zone alte delle classifiche e conformato il loro sound originariamente molto aggressivo. Lo rievoca quasi solamente The Birth, comunque fenomenale, poderosa rivisitazione in chiave hard del blues deviato di Captain Beefheart, da sempre il nume tutelare di Edgar Broughton. L’altro episodio hard rock, I Don’t Know Which Day It Is, è in realtà più prossimo ai power chords asciutti ed energici dei Free che alle angosciose trame di “Wasa Wasa”. Ciò la dice lunga sul nuovo corso stilistico, più “radio-friendly” in un certo senso rassicurante, ma di grande pregio. Vengono predilette le chitarre acustiche e atmosfere più assorte: si ascoltino la dylaniana opener Evening Over Rooftops, il brillante country-folk diell’inno pacifista Piece Of My Own, a metà tra i connazionali Fairport Convention e la West Coast americana dei Crosby, Stills, Nash & Young, lo stralunato blues per sole voce e chitarra Poppy e l’incalzante e catchy House Of Turnabouts. E il funk rock psichedelico di Madhatter? Sembra una jam tra Jimi Hendrix e niente meno che, per l’appunto, il “Cappellaio Matto del Rock” Syd Barrett: entrambi ne sarebbero stati deliziati, se solo al momento della pubblicazione uno non fosse già passato a miglior vita e l’altro non stesse perdendo inesorabilmente il senno. A onor del vero, la costante attenzione rivolta alle proposte rock allora più quotate nel mercato frutta un paio di scopiazzature, comunque perdonabili: Thinking Of You, come dice bene “AllMusic”, assomiglia a Working Class Hero di John Lennon e For Doctor Spock Parts 1 & 2 ricorda parecchio Fat Old Sun dei Pink Floyd (in questo caso, tuttavia, la stima dev’essere stata reciproca: sono pronto a scommettere che Waters e soci hanno ascoltato la qui presente What Is A Woman For? – monumentale tour de force soul-blues – prima di scrivere Shine On You Crazy Diamond). Ad ogni modo, bellissimo, eclettico e ispirato, benché non sia la loro impresa più originale in assoluto, “Edgar Broughton Band” avrebbe avuto tutte le credenziali per divenire un classico. E invece non è andato oltre a un discreto successo momentaneo, comunque inferiore rispetto ai precedenti (si ferma al 28esimo posto), per poi finire nell’oblio ed è davvero un gran peccato. Meglio tardi che mai: il mio consiglio è di recuperarlo, non ve ne pentirete.